Per la Giornata internazionale del Cioccolato, Il Bisonte Journal viaggia in tre luoghi dove si gioca la sostenibilità della filiera del cacao.
Immaginiamoci per un momento nella «stanza dei bottoni» di una multinazionale del cioccolato. Se ci immaginiamo in grande, saremo in quella del marchio Barry Callebaut, il maggiore produttore mondiale di derivati dal cacao. Qualche lettore appassionato popolerà quelle stanze di Umpa Lumpa e di nuovi progetti di biglietti dorati, come nella fabbrica fantastica di Roald Dahl. Altri, più pragmatici, penseranno ai litri di caffè che scorrono e alle cifre da capogiro pronunciate al telefono. La verità è che negli uffici centrali dei grandi cioccolatieri, da qualche anno a questa parte, la parola d’ordine diffusa è: Sostenibilità.
Rammentiamo adesso – è facile: potremmo essere lì leggendo il post – le processioni di tavolette e cioccolatini lungo le corsie più dolci dei supermercati. Se le percorriamo con interesse etico, dovremo orientarci in una selva di bollini di provenienza e di liste di ingredienti. Per questo, davanti una moda per la Sostenibilità, la scelta cade spesso sulla confezione più confortante (o più accattivante), nonostante l’aiuto di app specifiche – o dell’informazione come quella proposta dal nostro Journal.
Immaginiamoci infine, con un balzo oceanico, sulle Ande dell’Ecuador: precisamente a Salinas de Guaranda tra le imprese della cooperativa El Salinerito. Qui il cioccolato non è sostenibile perché la filiera è stata ripulita sull’etichetta, ma perché è il frutto di un’esperienza solidale, delle comunità con la loro terra, per alcuni la Pachamama. Ecco come il progetto «Forever Chocolate» di Barry Callebaut, che entro il 2025 mira a far coincidere il cioccolato sostenibile con il totale di quello prodotto, in qualche angolo del mondo, è già a buon punto.