Nel tempo che andava dal Calendimaggio, primo giorno del mese, alla festa del patrono di Firenze san Giovanni, il 24 giugno, si celebrava in città il Carnasciale, ovvero il carnevale. Per mischiarsi nelle piazze, e praticare quel gioco con una palla di stracci che sarà il calcio storico, attendevano questi mesi tutti i Fiorentini.
Lo stesso Lorenzo dei Medici, grande signore del Rinascimento, compose per il Carnasciale i suoi celebri canti, quelli in cui vide sfilare i carri allegorici con gli dèi antichi. Ma in quattro di queste poesie, il Magnifico lasciò le piazze per farsi dentro alle botteghe della città: dove si preparava il cibo per la festa.
«O donne, noi siam giovani fornai, / dell’arte nostra buon’ maestri assai», cantavano alcuni personaggi. E tutti, uomini e donne, lo facevano con scoperta malizia, perché il cibo diventava il mezzo per sedurre e provocare l’altro sesso, a suon di pane fresco e verdure dal contado. Ecco che a Firenze, in quei giorni di carnevale, indossava un’altra maschera l’imprevedibile cultura del bere e del mangiare.