Invase anche il Cenacolo di Santa Croce, quel giorno 4 di novembre. L’alluvione del 1966 non risparmiò il Crocefisso di Cimabue, anzi una sua frangia armata, un’acqua specialmente crudele e determinata, sembrò dirigersi a distruggere il capolavoro pittorico del «Dugento», come si dice il XIII secolo a Firenze. Il fango lascerà sul campo – come si dice in questi giorni ai notiziari – molti brani stracciati di vita fiorentina, e poi un numero disperato di opere d’arte.
Cimabue a Santa Croce. L’Opificio alla Fortezza.
Perché l’arte deve curare l’arte, Cimabue fu ricoverato alla Limonaia di Boboli. Il dipinto passerà diversi anni sotto le mani geniali dei restauratori. Questi venivano dall’Opificio delle Pietre dure di Firenze. Avevano mosso dalla Fortezza da Basso, dove si trovavano certi laboratori in quel 1966. Non passerà molto tempo e verranno unificati all’istituzione che porta il nome più poetico, che raduna la fabbrica dell’opificio e la materia preziosa delle pietre dure. Il grande Ugo Procacci sarà un artefice, è il caso di dirlo, di quello che oggi è nel mondo tra i maggiori istituti del Restauro.
Il ritorno di arte ed artigianato.