Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra.
Io ho visto, scrive Dante Alighieri, nelle prime terzine del canto XXII dell’Inferno, ho visto la battaglia di Campaldino, sabato 11 giugno 1289, giorno di san Barnaba. L’ho vista perché l’ho combattuta.
A sentire cantare una poesia, ne possiamo dimenticare l’origine necessaria. In verità non possiamo fare altrimenti. Quando Dante ha composto i suoi versi sulla battaglia, forse rullava le unghie della mano sinistra sul tavolo, gli occhi levati nel ricordo giovanile, attendendo alla rima perfetta.
La poesia cede enormi spazi dietro di sé perché può dipingere con pennellate minime. Ascoltare Dante oggi significa addestrare la fantasia a percorrere questi spazi. A manovrare come la cavalleria in una battaglia campale, come quella in cui Dante vide chi caricava e chi fuggiva, poi i vincitori fiorentini dilagare nelle terre di Arezzo, e correre tornei alle porte della città assediata. A noi decidere se il paesaggio dipinto sia reale o soltanto poesia.