Nella terza e ultima puntata del Journal su Nemonte Nenquimo, parliamo delle leggende lontane e vicine al nostro tempo, e alla nostra responsabilità verso le foreste ‘al di qua’ dell’oceano.
Esisteva una cerimonia, prima del 1535, che si svolgeva sul lago di Guatavita. Ogni anno il capo della popolazione Muisca, di lingua Chichba, si recava sulle sponde del lago, si faceva cospargere il corpo di alghe appiccicose, e soffiare addosso della polvere d’oro, fino a farsene ricoprire del tutto. Quindi si spingeva con una barca al centro dello specchio d’acqua e lì si immergeva, per lavarsi di dosso la sua offerta rituale. Da riva, i fedeli gettavano doni dorati sul fondo del lago. Nel 1535, i conquistadores Gonzalo Jiménez de Quesada e Sebastián de Belalcázar, alla ricerca come tanti altri della mitica regione americana lastricata di lingotti preziosi, vennero a conoscenza di questa cerimonia. Da quel momento, il paradiso perduto venne chiamato El Dorado, da quell’indio dorado che si immergeva nel lago di Guatavita. Pochi anni dopo sarebbe stata fondata lì nei pressi la città di Bogotá.
Il capo dei Muisca si ricopriva d’oro per immergersi nel lago di Guatavita.
Non è difficile credere che anche gli antenati di Nemonte Nenquimo, la leader dei Waorani che oggi combatte lo sfruttamento dell’Amazzonia, si siano scontrati contro questi cercatori di miraggi. Oggi le aspettative sono molto più basse. Non oro, ma alberi da abbattere, pascoli per il bestiame, riserve d’acqua per l’agricoltura intensiva.
Rinunciare all’oro vuol dire curare la foresta vicina.
A prescindere dal loro fondo variabile di verità, tutte le leggende che promettono ricchezze in terre straniere rendono palese un movimento del pensiero degli uomini. Quello di mascherare il problema di casa per rincorrere un soluzione invisibile. Il carattere principale del mondo globalizzato è infatti la facilità con cui si esportano i desideri. Sugli stessi vettori dovremmo al contrario esportare responsabilità. Per noi, ‘rinunciare all’oro’ vuol dire riconoscere l’illusione della felicità lontana se prima, come Nemonte, non abbiamo curato la nostra foresta vicina.